È guerra sotterranea per la presidenza dell’Acos, la principale azienda partecipata dal Comune di Novi che ne possiede il 64 per cento. I due contendenti sono l’attuale presidente Camillo Acri e il consigliere comunale del Pd Roberto Rossi. Acri, tra i vertici della vecchia Margherita, è sulla poltrona più alta dell’ex municipalizzata da ormai otto anni, quando la crisi tra lo Sdì e l’allora sindaco Mario Lovelli portò in giunta alcuni esponenti eletti con i Democratici. Acri, in predicato per diventare assessore allo sport, al termine di una lunga trattativa rimase fuori dai giochi e, qualche mese dopo, nel dicembre del 2001, venne ricompensato con la presidenza di Acos. Da allora, l’ex arbitro detiene ininterrottamente la sua carica. Confermato nel 2004 dal nuovo primo cittadino Lorenzo Robbiano, l’incarico di Acri sarebbe dovuto scadere dopo i canonici cinque anni, in seguito alle elezioni comunali del 2009. Due anni e mezzo prima, però, ci s si mise di mezzo il governo: con una legge, infatti, Prodi stabilì che il numero dei consiglieri di amministrazione delle società controllate da enti locali doveva diminuire. Nel novembre del 2007, così, Acos e Cit furono costrette a rinominare i cda tagliando un bel po’ di teste. Acri, ancora una volta; rimase in sella guadagnandoci anche ‘un annetto in più: la scadenza del consiglio di amministrazione, infatti, venne posticipata al novembre di quest’anno. E così arriviamo ai giorni nostri. Roberto Rossi, anch’egli proveniente dalla Margherita, dopo le elezioni del 2009, ottenne dal sindaco la promessa che la presidenza dell’Acos sarebbe spettata a lui. Non che ne avesse molti titoli: l’incarico di presidente del consiglio Rossi l’aveva svolto senza infamia e senza lode e, nonostante la sua adesione – quan-tomeno formale – al Pd, sono in molti a ricordare la sua scarsa partecipazione alla vita di partito. Si racconta addirittura che, in due anni, prese parte ad un’unica riunione: quella per decidere le candidature alle comunali. Ma forse è l’invidia a parlare. Quel fatidico 7 giugno, infatti, alla chiusura delle urne Rossi si ritrovò in tasca qualcosa come 230 preferenze, divenendo il consigliere più votato di tutta la città. Di certo non era pensabile che accettasse di scaldare una sedia qualunque a Palazzo Pallavicini: e così in seno alla maggioranza maturò la decisione di destinarlo all’Acos al posto di Camillo Acri. Quest’ultimo però non pare avere nessuna intenzione di mollare la presidenza della più ricca azienda cittadina. Dal suo ex compagno di partito, Rossi si sarebbe probabilmente aspettato un gesto di cortesia istituzionale: quelle dimissioni che di solito vengono rassegnate all’indomani delle elezioni, per permettere alla nuova amministrazione -se lo desidera – di nominare persone di propria fiducia. Dimissioni che però, nel caso di Acri, non sono mai arrivate. Forse ha pensato che, rimanendo inalterata la maggioranza, non era il caso di farlo. O forse sta semplicemente cercando di rimanere a cavallo il più a lungo possibile. Dopo quasi un anno di attesa, ora Rossi inizia a scalpitare e quella che era.co-minciata come una guerra fredda fatta soprattuttòdi discreti tentativi di convincimento, sta diventando una lotta all’ultimo sangue. Qualcuno a palazzo starebbe addirittura pensando a una soluzione drastica: chiedere agli amministratori delle aziende comunali di dimettersi. Un atto che però piace a pochi: sicuramente non al sindaco Robbiano che dovrebbe assumersene la paternità e che si troverebbe coinvolto direttamente nello scontro tra Rossi e Acri. E per di più la richiesta potrebbe cadere nel vuoto, visto che Acos è una società per azioni e risponde alle regole del diritto privato. Nel frattempo Acri sta giocando le sue ultime carte: proprio su queste colonne, poco tempo fa ha spiegato di considerarsi «equidistante dal Pd e dall’Udc». Un’uscita che avrebbe irritato ancor di più Rossi: se l’ex arbitro infatti riesce ad accreditarsi come l’ufficiale di collegamento tra le due formazioni, infatti, c’è il pericolo che la promessa fatta al consigliere democratico venga sacrificata sull’altare di un’eventuale alleanza tra Pd e Udc di casa nostra. E oggi, in città, il partito di Casini vale il 5,2 per cento: esattamente quanto serve per garantire al centrosinistra la maggioranza assoluta dei consensi.